Hanami e la Filosofia Zen

La primavera è il risveglio e il fiorire della natura, che, dopo un lungo periodo di riposo, torna a mostrarci i suoi colori e le sue meraviglie. Una di queste meraviglie è proprio la fioritura in aprile dei fiori di ciliegio, un evento spettacolare che in Giappone è riconosciuto con il nome di Hanami.
L'Hanami è la tradizionale usanza giapponese di celebrare e godere la bellezza della fioritura primaverile degli alberi, in particolare di quella dei ciliegi da fiore giapponesi: è una sorta di "rito", con il quale si è lieti di contemplare i ciliegi in fiore in primavera, simile alla tradizione di Koyo, la sua corrispettiva autunnale, durante la quale ci si può divertire a pescare o a fare rilassate escursioni lungo i laghi, ammirando la straordinaria bellezza degli alberi di faggio e aceri, colorati di rosso e d'oro.
Il termine "Hanami" letteralmente significa "osservare i fiori" (da "hana" = "fiori" e "mi" = "vedere"), una pratica che affonda le proprie radici nella storia e nella tradizione giapponese. È, inoltre, importante precisare che i giapponesi non usano soltanto la parola "hanami", ma anche "ohanami" (aggiungendo la lettera "o" all'inizio), che significa, invece, "osservare la fioritura dei fiori".
L'immagine bucolica di questa ricorrenza sono le immense chiome in fiore dei ciliegi e dei susini, che, diffusi in tutto il Giappone, si aprono in un arcobaleno infinito di colori e forme.
Per i giapponesi, questo avvenimento è molto importante, quasi sacro, perché segna il momento della rinascita, oltre alla celebrazione della natura e degli uomini in tutto il paese.
La tradizione di Hanami iniziò alla fine del VII secolo d.C. come intrattenimento della corte imperiale, quando la Dinastia Cinese Tang influenzò il Giappone in molti modi differenti, portando nel Sol Levante molte tradizioni e costumi.
Durante il periodo Nara (710-784 d.C.) si godeva della fioritura dei susini, mentre nel periodo successivo Heian (794-1185 d.C.), l'attenzione fu spostata sul fiore di ciliegio (il cosiddetto "sakura"). Da allora, quando si parla di Hanami, si pensa esclusivamente a quest'ultimo fiore.
Sakura è anche un nome proprio femminile piuttosto diffuso. Dal punto di vista simbolico, il fiore di ciliegio è proprio del samurai, del guerriero. Come la sua fioritura è un'esplosione di splendore, che dura un tempo brevissimo, così è l'esistenza del samurai: intensa, splendente e incerta. Un temporale improvviso può provocare la caduta dei fiori, così un colpo di spada può colpire a morte il samurai, la cui anima s'allontana dal corpo come un petalo nel vento.
Un antico detto recita: "hana wa sakuragi, hito wa bushi", (che significa "tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero").
Originariamente, la fioritura del ciliegio preannunciava l'inizio del periodo di semina del riso, e veniva usato per capir se il raccolto sarebbe stato buono o meno. Si credeva che nell'albero abitasse una divinità, e si lasciava ai suoi piedi delle offerte di saké, che servivano ad ingraziarla.
Fu l'imperatore Saga a voler adottare questa antica pratica di origine cinese, cominciando a tenere feste e balli sotto gli alberi di ciliegio piantati nel giardino del palazzo della Corte Imperiale a Kyoto: erano feste all'aperto, in cui si ammirava la fioritura, si beveva il saké e si dedicavano poesie ai fiori di ciliegio, belli ed effimeri, metafora della vita stessa.
A quel tempo, Hanami era un evento riservato solo a persone di alto lignaggio, come nobili, samurai che frequentavano la corte e poeti che lodavano con i loro versi il fascino e la meraviglia di tale bellezza. Poi, con l'arrivo del periodo Edo (1603-1868 d.C.), questa ricorrenza venne aperta a tutti i ceti del popolo, che poterono così festeggiare tale usanza bevendo saké e mangiando sotto una pioggia di petali rosa.
Nel XVIII secolo, lo shogun (il "comandante dell'esercito") Tokugawa Yoshimune fu uno dei primi ad incoraggiare questa usanza a livello popolare: fece piantare ciliegi in molte aree, per far si che la gente potesse festeggiare l'evento in maniera gaia e spensierata all'ombra degli alberi in fiore.
Yoshino, le cui colline in primavera si colorano del rosa pallido degli alberi in fiore, è la città d'origine dei ciliegi giapponesi: la leggenda racconta che gli alberi furono piantati nel VII secolo d.C. dal sacerdote En-no-Ozuno, il quale, si dice, avesse scagliato una maledizione contro chiunque osasse abbatterli. Secondo alcune cronache antiche, si narra che anche l'Imperatrice Jito (645-702 d.C.) veniva in questo luogo per ammirarne la fioritura.
La leggenda narra anche che il colore dei fiori del ciliegio in origine fosse candido, ma che, a seguito dell'ordine di un imperatore di far seppellire i samurai caduti in battaglia sotto gli alberi di ciliegio, i petali divennero rosa per aver assorbito il sangue di quei nobili guerrieri. Per questo motivo, i samurai che decidevano di suicidarsi secondo il loro codice d'onore, erano soliti farlo proprio sotto gli alberi di ciliegio.
I fiori di ciliegio (sakura) sono fiori particolari, belli e fragili, talmente delicati che durano pochi giorni, poi si sfaldano e i loro petali vengono trasportati dal vento. I fiori di ciliegio non appassiscono, si dissolvono nell'aria senza lasciare che il tempo li deteriori. Sia quelli di color bianco pallido e sia quelli rosa intenso scompaiono ancora perfetti.
Per questo, i samurai li adottarono come simbolo: si auguravano, infatti, di avere una vita che potesse spezzarsi onorevolmente, in battaglia o con il "seppuku" (il "sacrificio"), ancora nel vigore degli anni. Il fiore del ciliegio rappresenta, quindi, l'anima del Giappone: la delicatezza, il colore pallido, la brevità della sua esistenza sono per i giapponesi il simbolo della fragilità, ma anche della bellezza dell'esistenza.
In attesa del grande evento di Hanami, nel giorno del 21 marzo si festeggia lo "Shunbun no hi" (l'Equinozio di Primavera), una ricorrenza molto considerata nel paese del Sol Levante. Secondo il calendario lunare, che si usava prima del 1873, in cui la numerazione dei mesi era circa 1 mese e mezzo indietro rispetto a quella del moderno calendario solare, l'inizio della primavera cadeva nel terzo o quarto giorno del secondo mese dell'anno. Alcuni dei riti di benvenuto alla primavera che si tenevano in quel giorno hanno ancora luogo il 3 o il 4 febbraio, anche se queste giornate, in realtà, coincidono con il periodo più freddo dell'inverno. Anticamente, nel giorno dell'Equinozio di Primavera c'era il rito dell'apertura delle porte e delle finestre delle case, per fare uscire la cattiva sorte e i demoni del male; si lanciavano fagioli in aria e si diceva: "Fuku wa uchi, oni wa soto" (che significa "dentro la fortuna e fuori i demoni"). Per conservarsi in buona salute, gli antichi giapponesi usavano mangiare tanti fagioli quanti erano i loro anni di età. Questo rito aveva luogo nella corte imperiale l'ultimo giorno dell'anno lunare, e stava a simboleggiare l'eliminazione degli spiriti del male, del freddo invernale e delle tenebre: questa pratica tradizionale dava anche il benvenuto ad una nuova e luminosa primavera.
Oggi chiamata anche Haru no higan ("il Giorno dell'Equinozio di Primavera"), questa tradizionale ricorrenza coincide con il periodo di sette giorni intorno all'equinozio di primavera, il 21 marzo, quando le persone visitano le tombe di famiglia, rendono ossequi alle terre dei loro antenati e chiedono ai preti buddhisti di recitare i "sutra" (i testi sacri) in loro onore.
Soltanto un paio di mesi dopo avrà inizio il magnifico evento di Hanami, periodo in cui si è soliti fermarsi ad apprezzare le meraviglie primaverili di Madre Natura. In genere, la fioritura dei ciliegi avviene tra la fine di marzo e gli inizi di aprile: come abbiamo già accennato prima, questo avvenimento viene vissuto dai giapponesi come un momento di rinascita e di buon auspicio alla prosperità. Di solito, i fiori sono al massimo della fioritura per uno o due giorni, per poi sfoltirsi pian piano fino alla fine di aprile.
Questa raffinata tradizione, antica più di un millennio, è ancora molto sentita in Giappone, tanto da provocare vere e proprie migrazioni di milioni di persone dalle loro città verso le 60 località più famose del Paese. Infatti, durante la Festa dei Ciliegi, i giapponesi si riversano in massa lungo i viali, nei parchi, nei templi, nei boschi, nei sacrari e nelle altre aree di osservazione, per ammirare lo scenario spettacolare dei ciliegi in fiore.
La festa di Hanami combacia con l'inizio dell'anno scolastico giapponese, ed è anche un'occasione per uscire all'aperto e consumare un sostanzioso picnic a base di sushi, con birra e saké in abbondanza, all'ombra degli alberi fioriti. I giapponesi amano passeggiare e fare lunghe camminate nei parchi, con il solo scopo di rilassarsi e dedicarsi alla completa meditazione e contemplazione non solo della natura, ma anche di sé stessi, all'insegna del benessere e del rinnovamento dello spirito, seguendo i dogmi della disciplina Zen, la quale porta inevitabilmente alla calma interiore e ad una forma di quietismo positivo, attraverso l'annullamento totale dell'uso dell'intelletto e prestando ascolto solo agli istinti e all'intuizione.
Già all'alba, alcuni gruppi di persone si aggirano nei parchi per accaparrarsi il posto con la vista migliore, stendendo la classica coperta blu, che servirà poi per il picnic. Sotto gli alberi in fiore, riuniti con la famiglia o con gli amici, i giapponesi cantano e ballano melodie tradizionali, mangiano molto e soprattutto bevono; la festa dura per tutti i giorni in cui la fioritura è al suo massimo splendore (in genere qualche settimana!).
Per l'occasione, vengono anche inscenate delle recite e fuochi d'artificio; non mancano poi le bancarelle con le più svariate pietanze.
I festeggiamenti continuano anche durante la notte, dove Hanami cambia nome in Yozakura (ovvero "La notte del ciliegio"). Infatti, le passeggiate si prolungano fino a sera tardi, dove, grazie alla complicità del bagliore lunare e alle chochin accese (le famose lanterne di carta), l'evento diventa un vero spettacolo suggestivo, con un' atmosfera che di sicuro giova moltissimo alle giovani coppie di innamorati: di notte, i fiori sono più stupendi e l'atmosfera è sicuramente più romantica.
I parchi di Tokyo, in questo periodo, sono splendidi, ma talmente affollati da risultare impossibile trovare anche solo un posticino in cui sistemarsi.
Si pensi, che molti arrivano addirittura la sera prima e dormono all'aperto, per assicurare il posto migliore al gruppo di amici che li raggiungerà la mattina seguente.
Basta una folata di vento e i fiori si trasformano in una pioggia di petali abbaglianti, che cadono a terra immacolati, rendendo bella qualsiasi cosa sulla quale si posano!
Il vero senso della tradizione di Hanami non consiste solo nel guardare lo spettacolo offerto dalla bellezza dei fiori sull'albero, ma nell'osservare con una punta di tristezza e commozione come essi cadono dall'albero, trasportati dalla brezza primaverile, nel breve viaggio che li separa dalla terra ancora fredda. Un modo dolce, e allo stesso tempo malinconico, per ricordare che ogni vita è destinata a finire. Hanami è il trionfo della bellezza effimera, la rappresentazione della bellezza della vita, ma anche della sua caducità, e ci suggerisce di godere a pieno il tempo concessoci: il profumo delicato dei fiori di ciliegio racconta della freschezza della giovinezza, che forse è bella proprio perché non dura per sempre.
Ecco come recitava un haiku (componimento poetico strutturato in soli tre versi) del poeta e pittore giapponese Yosa Buson (1715-1783):

"Cadono i fiori di ciliegio
sugli specchi d'acqua della risaia:
stelle, al chiarore di una notte senza luna".

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La Filosofia Zen

La filosofia Zen, di origine Buddhista ma fortemente influenzata dalle dottrine del Taoismo, nacque storicamente con Bodhidharma, il quale lasciò l'India e si trasferì in Cina verso la fine del V secolo d.C. Successivamente, anche il Giappone prestò molta attenzione allo sviluppo dello Zen e alle sue manifestazioni nella vita quotidiana, tanto che moltissimi samurai abbinarono la meditazione alla pratica delle arti marziali, di cui erano abili maestri.
La calma durante la lotta e la concentrazione acquisita durante la meditazione erano considerate spesso elementi decisivi nella risoluzione di un combattimento.
Lo Zen è considerato come una filosofia che non implica e, al tempo stesso, non esclude l'esistenza di un dio o di più divinità. Ciò non significa incertezza, ma, al contrario, flessibilità, la caratteristica principale di tale pensiero.
Lo Zen è una delle possibili Vie per l'Illuminazione, cioè per comprendere la propria natura. Permette di raggiungere uno stato di quiete fisica e mentale, senza che nessun pensiero possa disturbarci. Fluidamente ci si libera dalle riflessioni e dalle immagini che contraggono la nostra mente e il nostro corpo, lasciandoci liberi di vivere istante dopo istante la nostra esistenza. Praticando lo Zen è possibile, inoltre, concentrare tutto il nostro essere sull'azione che si sta compiendo, pur mantenendo il contatto con l'ambiente circostante. Si genera, così, l'intuizione, uno degli elementi privilegiati dallo Zen; bisogna affrontare qualunque situazione, rivelando il meglio di sé stessi e delle proprie capacità. Lo Zen non aggiunge nulla a noi stessi, ma toglie ciò che disturba alla nostra naturale espressione d'esistenza. Anche il tipo di meditazione praticato è naturale, semplice e rispettoso della nostra esistenza. Grazie alla meditazione, è possibile ritornare a ciò che si è nel nostro profondo, evitando di porre l'accento su come vorremmo essere o apparire. Si torna ad ascoltare noi stessi, le nostre sensazioni, i nostri stimoli, si torna a riconoscerli e ad agire nel rispetto del nostro essere e del mondo in cui viviamo. "Rispetto" non significa dovere, ma armonia. Ferire un'altra persona provoca una dissonanza con il nostro essere e con il mondo che ci circonda. Da ciò discende il rispetto per sé stessi e per gli altri, non come frutto di un dogma morale, ma come naturale appagamento della nostra natura di persone.
Lo Zen favorisce lo sviluppo delle capacità percettive, facilitando la comprensione degli altri. L'umano intuito è l'elemento indispensabile di chi voglia aiutare un altro in difficoltà, ma anche per percepire eventuali pericoli. Lo Zen si traduce, quindi, in un percorso che integra ascolto e spontaneità: è una strada basata sull'esperienza di vivere secondo il proprio naturale modo di essere.
Nel corso della storia, si è constatato che la mente dell'uomo è capace di due tipi di conoscenza: la prima modalità è quella razionale, tenuta in grande considerazione dall'occidente, mentre la seconda è quell'intuitiva che, in genere, è esattamente l'opposto, ed è confacente all'atteggiamento orientale. La conoscenza razionale appartiene al campo della scienza e dell'intelletto, la cui funzione è quella di analizzare, discriminare, dividere, confrontare, misurare e ordinare in categorie. La conoscenza razionale è un sistema di concetti astratti e simboli, che considera l'ambiente naturale come se fosse costituito da parti separate.
Il pensiero orientale, e più generalmente il pensiero mistico, forniscono alle teorie della scienza contemporanea un importante e coerente riferimento filosofico: una concezione del mondo, nella quale i due temi fondamentali sono l'unità e l'interdipendenza di tutti i fenomeni, e considera l'uomo come parte integrante di questo sistema. Ciò che interessa ai mistici orientali è la ricerca di una esperienza diretta della realtà, che trascenda non solo il pensiero intellettuale, ma anche la percezione sensoriale. La conoscenza che deriva da un'esperienza di questo tipo viene chiamata dai buddisti "conoscenza assoluta", perché non si basa su discriminazioni, astrazioni e classificazioni dell'intelletto, le quali sono sempre relative e approssimate. La conoscenza assoluta è, quindi, un'esperienza della realtà totalmente non intellettuale, un'esperienza indifferenziata, indivisa e indeterminata, che nasce da uno stato di coscienza non ordinario. E' la realtà della vita del Sé, che vive solo così com'è, la nuda esperienza della vita. Il Sé non è superficiale, ma è la pienezza della gioia: infatti, essere consapevoli del Sé significa essere gioiosi.
In ogni parte del mondo, mistici sufi, cristiani, buddhisti, induisti e aborigeni hanno rinunciato alla sicurezza delle teorie e dei propri schemi mentali per fare esperienza di questa "Verità Assoluta", che trascende ogni schema religioso fissato dall'uomo.
Cosa fa un Buddha sotto l'albero del Bodhi? Non fa nulla. Si limita ad essere. Egli è colmo di un'insondabile gioia, perché ora non rimane nulla da raggiungere. Nel proprio essere si scopre che qualsiasi cosa degna di essere raggiunta esiste già. Il semplice accadere della vita, l'espirare e l'inspirare, le sensazioni interiori e il semplice pulsare della vita, son tutti elementi che conducono inevitabilmente all'assoluta beatitudine. Non ha nulla a cui pensare, non pensa alla famiglia: è semplicemente immerso nella beatitudine, dove non vi è passato, né futuro. Non sta andando da nessuna parte, il cuore batte, il respiro entra ed esce, il sangue circola e tutto è vivo e pulsante. Un'energia priva di scopo, che fluisce ovunque, senza una precisa meta, ma che poi non va da nessuna parte, fluisce verso il nulla. L'estasi non è una meta. Egli è felice solo per il fatto di avere la pulsazione dell'essere vivo.
A causa dell'educazione e del condizionamento ambientale, il funzionamento delle nostre menti è legato a un sistema particolare di logica, formato da concetti, e ogni cosa viene considerata attraverso un sistema fatto di opposti: buono o cattivo, bianco o nero, giusto o errato. A causa di questo modo di giudicare, non possiamo raggiungere le unità attraverso la molteplicità. Lo scopo dello Zen è quello di andare al di là dei legami della dualità, rinunciare a tutti i concetti creati dall'intelletto e vedere le cose come realmente sono, per mezzo della introspezione intuitiva.
Lo Zen insegna che il "satori" (ossia il "risveglio") attraverso la meditazione è il vero fine della nostra attesa. Non c'è nulla da attendere, infatti: ciò che succede, succede. Non esistono leggi, regole e scopi, né in natura né nei pensieri. Riacquistare la spontaneità della nostra natura originaria, la natura di Budda di tutte le cose, richiede un lungo percorso e costituisce una grande conquista spirituale. E solo attraverso la meditazione si può fare l'esperienza di sentire la nostra natura originaria.
Lo scopo della filosofia Zen è quello di calmare la mente e il corpo mediante la pratica della meditazione, con lo scopo di arrivare ad una visione interiore. Come un torrente primaverile risveglia la prateria, lo Zen provoca una rivoluzione interiore, una mutazione dell'essere.
Durante lo za-zen (ossia "la pratica meditativa dello Zen") occorre essere seduti con le gambe incrociate, la schiena dritta, la respirazione calma, il corpo e lo spirito unificati, senza spirito avido. La base della filosofia Zen è il silenzio, ovvero il Ku (ossia il "silenzio totale"), che è la condizione originaria della natura umana. Dunque lo Zen non è altro che l'educazione del silenzio: "Nel silenzio si alza lo spirito immortale e senza parlare la gioia viene", diceva un maestro.
Ma lo za-zen non deve essere confuso con la meditazione nel senso classico del termine. La meditazione significa porre qualcosa nella mente, un immagine o una parola sacra, che viene poi visualizzata. Nello za-zen la mente è libera dal legame di tutte le forme concettuali, di tutte le visioni, gli oggetti, le immaginazioni, per quanto sacre o elevate, e viene indotta in uno stato di assoluta vacuità, per arrivare a percepire la vera natura dell'universo. Infatti, durante lo za-zen non si pensa: anche se il subconscio si manifesta, si lascia passare, e il pensiero non si trattiene. In questo modo, la coscienza diventa illimitata, infinita. Questa è la vera coscienza cosmica.
Lo Zen è un metodo prescientifico, metascientifico, o perfino antiscientifico. Bisogna imparare a padroneggiare le vie dell'inconscio e la saggezza sconosciuta del Sé. Ciò che esiste nel centro interiore è aldilà di ogni spiegazione. Viceversa, la scienza inizia là dove comincia la spiegazione, e dunque all'esterno del Sé. Scoprire il proprio inconscio, invece, non è un atto intellettuale, ma un'esperienza affettiva, che non può essere spiegata a parole. Lo spirito logico deve dissolversi progressivamente, per consentire al pensiero unificatore dello Zen di emergere. Una volta che tale livello sia raggiunto, la comune coscienza viene pervasa dal flusso dell'inconscio.
Realizzare il satori non corrisponde a raggiungere il nirvana obiettivo delle scuole del Buddhismo dei Nikaya: se quest'ultimo si presenta, infatti, come rinuncia al mondo e distacco da esso, il satori si propone come una partecipazione attiva e consapevole al mondo, anche se percepito nella sua dimensione di vacuità. Solo l'uomo libero da opinioni e da idee preconcette può vedere l'unità e l'integrità della vita: "Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. Se siamo vuoti, possiamo contenere l'universo", diceva un antico detto. Vuoto è la condizione dello spirito che non si attacca a nessuna cosa. Lo Zen pretende di collocarsi al di là del bene e del male, e finché non si supera quell'eterno dualismo, non si potrà mai conoscere la libertà definitiva. Solo qui si trova l'essenza di tutte le religioni e di tutte le filosofie, la sorgente della saggezza, la vera Natura di Buddha, la natura originale del nostro spirito. Più ci avviciniamo a questo spirito puro, più possiamo creare intorno a noi una atmosfera raggiante, feconda e benefica. Più ce ne allontaniamo, più diventiamo la preda dell'ambiente.
Il monaco cristiano statunitense Thomas Merton, attento conoscitore cristiano del Buddismo e dello Zen, nella sua opera "Lo zen e gli uccelli rapaci" ha così descritto questa filosofia:
"La coscienza zen è paragonata a uno specchio. Lo specchio è senza io e senza mente. Se arriva un fiore riflette un fiore, se arriva un uccello riflette un uccello. Mostra bello un oggetto bello, brutto un oggetto brutto. Rivela ogni cosa com'è. Non ha una mente discriminante, né coscienza di sé. Se arriva qualcosa lo specchio lo riflette; se scompare, lo specchio lo lascia scomparire… e non rimane alcuna traccia".
I 10 principi fondamentali della filosofia Zen sono:
1.    Vivi qui e ora;
2.    Fai attenzione a tutto quello che fai;
3.    Sii autentico verso i tuoi sentimenti;
4.    Ama te stesso;
5.    Impara a lasciare andare;
6.    Sii onesto con te stesso e con gli altri;
7.    Sii consapevole dei tuoi desideri;
8.    Sii responsabile di te stesso e del mondo;
9.    Non opporti al flusso della vita;
10.    Trova la pace interiore.


Aneddoto gastronomico giapponese
Per questa speciale ricorrenza si usa preparare il "dango", ossia delle polpette di riso servite col tè verde: questa pietanza si mangia durante tutto l'anno, ma per la festa di Hanami se ne prepara un tipo particolare, detto "hanami-dango", costituito da tre polpette dai colori che richiamano la primavera: rosa, bianco e verde.
Un proverbio molto usato e legato ai fiori e a questa ricorrenza è "Hana Yori Dango". La traduzione letterale di questo proverbio è "meglio polpette che fiori", dove per polpette si intendono appunto i dango; il modo di dire è usato in tono ironico verso le persone che preferiscono starsene a mangiare e a bere, piuttosto che ammirare la bellezza dei fiori.
Durante la tradizione di Hanami, vi è anche l'assaggio di altre delizie, quali i "sakura mochi", ossia dei dolcetti a base di riso tinti prevalentemente di bianco e rosa.

La leggenda dell'Antico Ciliegio
In Giappone c'è una leggenda legata ad un vecchissimo ciliegio, che si trova a Wakegori, un distretto della provincia di Iyo. Quest'albero è conosciuto da tutti come "Jiu-Roku-Zakura" (il Ciliegio del Sedicesimo Giorno), a causa della sua particolarissima fioritura, che, ogni anno, arriva puntuale il sedicesimo giorno del primo mese dell'antico calendario lunare e termina al calare del giorno stesso.
Dietro questa fioritura, unica nel suo genere poiché i ciliegi normalmente fioriscono in primavera e non nel periodo del Grande Freddo, si cela la triste storia di un samurai di Iyo.
L'albero "Jiu-Roku-Zakura", inizialmente, era un comune ciliegio, senza alcuna caratteristica particolare, un ciliegio che cresceva da diverse generazioni nel giardino di quel samurai. Da più di cento anni, gli abitanti di quella casa appendevano ai suoi rami strisce colorate con versi di buon augurio; lo stesso samurai aveva trascorso sotto le fronde di quell'albero interminabili ore della sua giovinezza, e sotto gli stessi rami era cresciuto e invecchiato: sembrava che sotto quei rami la sua vita non avesse mai fine, poiché ad uno ad uno l'uomo aveva visto morire tutti i suoi cari, tutti i suoi figli, fino al giorno in cui si rese conto di non avere nient'altro al mondo che il suo ciliegio.
Ma un'estate, improvvisamente, anche l'albero morì, lasciando un incolmabile vuoto nel cuore del vecchio samurai.
Dei vicini tentarono di colmare quel vuoto, piantando nel giardino dell'uomo un ciliegio bello e giovane, ma il cuore del samurai continuava ad essere colmo di sofferenza.
Questa triste situazione andò avanti per molto tempo, ma un giorno, e precisamente il sedicesimo giorno del primo mese, l'uomo si ricordò improvvisamente di un modo con cui era possibile salvare una creatura morente: tentò il "Migawari ni tatsu" (che letteralmente significa "operare una sostituzione"), chiedendo agli dèi di scambiare la propria vita con la sua. Immediatamente, corse in giardino, si inchinò davanti all'albero avvizzito e disse: "Degnati, te ne prego, di fiorire ancora, perché sto per morire al posto tuo".
A quel punto, il vecchio samurai distese sul terreno dei mantelli, vi si sedette e, senza esitazioni,  si suicidò. Nello stesso istante in cui la lama gli trapassava il ventre, la vita e lo spirito dell'uomo si trasferirono nell'albero: il nobile gesto del vecchio samurai permise così alla pianta di rinascere e di rifiorire in tutta la sua bellezza.
Da allora ogni anno, il sedicesimo giorno del primo mese, mentre in Giappone regnano il freddo e la neve, il prodigioso albero fiorisce, facendo conoscere al mondo la generosità di un samurai capace di donare la propria vita pur di vedere ancora quei fiori.

Aneddoto architettonico giapponese
Che cosa è il Giardino Zen?
Il Giardino Zen è un meraviglioso giardino tipico della cultura giapponese, i cui elementi (acqua, piante, pietre) sono rappresentati in maniera simbolica da sole pietre, ghiaia e sabbia. L'acqua viene rappresentata da "fiumi" di ghiaia, il cui moto si scontra con l'emergere dal suolo di grosse pietre dalle forme naturalmente disordinate, allo scopo di simboleggiare il dinamismo delle forme della natura incontaminata.
Il giardino di ghiaia è stato creato per offrire ai monaci un posto dove meditare, ed è conosciuto per il suo effetto calmante. Il Giardino Zen crea un senso di tranquillità, immobilità e calma, dove la mente può espandersi e liberare l'immaginazione.

(da "La ruota dell'anno" - di Luciano Travaglione)





Fonti e Bibliografia

Libri:

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Autori di Articoli e Scritti:

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